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Il 4 gennaio scorso hanno avuto inizio le celebrazioni in occasione dei 50 anni dalla morte di Carlo Levi, scrittore, pittore oltre che medico, ma mai per professione, che ha dato un tributo ragguardevole all’Italia del dopoguerra, lasciando un segno legato anche e soprattutto all’arte e alla cultura del nostro Meridione. Ma non solo, il suo libro, Cristo si è fermato a Eboli, è diventato una stele nella letteratura, tradotto in 40 lingue, studiato e approfondito. Le opinioni sul realismo di Carlo Levi sono contrastanti, vi è una schiera di critici che lo definisce letterariamente sperimentatore, un’altra parte lo individua come pregnante di realismo ed assolutamente non neorealistico. Dal punto di vista pittorico aderì al neorealismo nel 1956, ma venne individuato anche come post-impressionista. Qualcuno, tra cui Filippo La Porta, ha pensato che Levi “pensava che la letteratura, l’arte, inventa la verità e scopre la realtà”. Eccezionale e inconsueto. Ma se i tratti del pittore e scrittore sono ormai noti, c’è un aspetto forse poco conosciuto nella sua vicenda privata di uomo, oltre che di artista. La figura è quella di Linuccia Saba, scrittrice e pittrice, figlia del noto poeta e letterato Umberto Saba. Conobbe Carlo proprio perché egli era assiduo frequentatore della casa Umberto Saba, se ne innamorò immediatamente e questo rapporto sentimentale, tanto travolgente quanto profondo, tanto fine quanto tenace, è durato fino alla morte dello scrittore. Proprio per volontà di Levi, Linuccia istitutì nel 1975 la Fondazione a lui dedicata e ne fu la prima presidente. Le loro relazioni sono state forti e costanti, mai affievolite, con la scrittrice che diverse volte è stata anche ad Aliano, paese in cui venne confinato Carlo, semplicemente per aiutarlo, per incontrarlo, per nutrire per lui devozione.

Non è poi così errato pensare che Linuccia possa essere stata ispiratrice per molte cose nella attività variegata di Carlo Levi, non solo compagna, estasiata amante, ma forse anche musa. E’ proprio dalla sua raccolta epistolare che si può arrivare alla sua personalità, ai tratti della sua vita privata, vicende articolate, profonde ma decise, forti. I rapporti epistolari sono stati intensi, non solo col Carlo Levi, ma anche con Bruno Vasari, partigiano, scrittore e antifascista triestino. Perseguitata durante la Seconda Guerra Mondiale, collaborò anche con i partigiani, rifugiatasi a Firenze, qui ritrovò Carlo Levi.

Il rapporto che Linuccia ha avuto con Carlo era anche fortemente passionale, emotivo. Quando era lontana da lui, l’intenso legame si palesava deciso nelle sue lettere: “Mio caro Carlo, ti ho scritto in questi giorni una lunga lettera che però rimane nella mia borsetta. Il tuo silenzio, anche quando non si tratta di “sentimento”, è eloquente e rende la lettera inutile. Evito quindi ogni argomento personale”. In un’altra scrive: “Amore, speravo vederti e dirti che non hai nessun dovere verso di me; io dovrei avere una infinita gratitudine verso di te, ma sarebbe, è, così grande che mi soverchia. Posso solo paragonarla a quella di Adamo verso Dio, solo Adamo ha dato, penso, soddisfazione a chi ha toccato. Io invece posso solo volerti bene: è oggi la sola cosa viva che io senta. Ti abbraccio, Linuccia”. Nonostante ciò, la relazione tra i due fu discreta, mai e poi mai Levi chiese a Linuccia di separarsi dal marito, il pittore Lionello Giorgi, né Linuccia chiese mai a Carlo di dimenticare le donne cui era più o meno segretamente legato, come Paola Levi, sorella di Natalia Ginzburg e moglie di Adriano Olivetti, con la quale ebbe anche una bambina, e poi Anna Maria Ichino, irriducibile antifascista, che lo aiutò anche nella battitura a macchina della prima stesura del libro. E’ stata forse una sublimazione del sentimento che si connota come amore, che durerà fino alla morte di Carlo. E’ indubbio, comunque, che tra le righe del celebrato libro aleggia una sensibilità primaria precipuamente femminile, vi è una libertà emotiva cui indubbiamente la profonda perspicacia delle donne di Levi ha impresso un segno, fermamente indelebile. Hanno forse reso comprensibile l’incomprensibile, hanno forse donato un frasario, una forma, un linguaggio a ciò che per la sua incomprensibilità emigrava da ogni espressione. “Nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.”, LEVI Carlo, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino, 2014.

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