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Il Prof. Alfonso Conte da un ventennio è docente di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Salerno, dove insegna presso il Corso di laurea in Scienze Politiche. Autore di monografie e articoli dedicati soprattutto alla storia del Mezzogiorno tra Otto e Novecento, da qualche anno è presidente della Società Salernitana di Storia Patria. In esclusiva per Resportage ha concesso questa intervista, a lui va il più fervido ringraziamento.

  • Professore, col celebre ossimoro Marshall McLuhan, il sociologo e filosofo canadese, nel 1964 coniò la locuzione di “villaggio globale”, nella quale ipotizzava questo passaggio da uno scenario limitato e molto soggettivo ad un altro piuttosto omologato ma complessivo e totalizzante, segnando l’inizio, quanto meno retorico, della globalizzazione, termine che la rivista The Economist aveva già utilizzato nel 1962. Ma quando è iniziata davvero la globalizzazione e qual è, almeno in linea generale, il suo attuale stato di salute?

Secondo molti studiosi, la fase preparatoria della globalizzazione è da individuare già tra fine Settecento e primi decenni dell’Ottocento, quando in un’area delimitata (Gran Bretagna e Paesi Bassi) si sviluppano esperienze significative di imprenditoria riferibili al modello di capitalismo industriale e quando il progresso tecnologico avvia transizioni determinanti soprattutto nei trasporti e nelle comunicazioni. Ma è soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento, quando tale modello si estende a macchia d’olio prima alle regioni settentrionali della Francia e della Germania e quindi oltreoceano agli Stati Uniti e in Asia al Giappone, che l’aumento vertiginoso del commercio estero caratterizza l’avvio della prima fase della globalizzazione, destinata a chiudersi con la Prima guerra mondiale e a riprendere in forme inedite nel secondo dopoguerra coinvolgendo aree ancora più vaste. Fin dagli inizi e ancora oggi, chi vive “dentro”, in territori interessati dalla globalizzazione, conosce livelli di benessere materiale molto più elevati rispetto a chi vive “fuori”. Si tratta di un elemento da considerare anche per comprendere il perché di un processo che, nonostante pause e mutamenti, continua a evolvere e a espandersi, mantenendo molto elevata la sua forza di attrazione.

  • Quali sono stati i vantaggi ancora pienamente godibili apportati dalla mondializzazione dei mercati?

L’opportunità di godere di sbocchi commerciali dalle dimensioni ignote nel passato consente di aumentare a dismisura i margini di profitto per le imprese in grado di operare a livello globale, con utili non solo per gli imprenditori, ma anche per i lavoratori e il tessuto territoriale beneficiari del collegato processo di redistribuzione della ricchezza. Non mancano tuttavia anche vantaggi risultanti dall’impotenza degli Stati nel governare un processo per molti aspetti sfuggenti al loro controllo: è il caso, ad esempio, del prelievo fiscale, che, in assenza di una governance globale, è più facilmente eluso o più frequentemente indirizzato presso i “paradisi fiscali”. 

  • Chi analizza il futuro della globalizzazione parla di una possibile opposizione “West vs the rest”, cioè l’Occidente contro il resto, ove “il resto” sarebbe ovviamente rappresentato in primis dalla Cina, nonché di una sorta di “regionalizzazione degli scambi”, quindi di un cambiamento di tendenza. Cosa ne pensa?

In realtà il caso della Cina potrebbe sconvolgere profondamente lo schema di una globalizzazione legata al modello seguito dalle aziende occidentali, che ancora fino alla fine del Novecento era risultato prevalente, anche quando soggetti fuori dal West, le “tigri asiatiche”, si erano inserite nelle dinamiche dell’economia globale. Nata ed evolutasi in Occidente nel solco dell’indissolubile legame tra libertà politiche ed economiche, la globalizzazione del XXI secolo appare ormai dominata da una via cinese allo sviluppo, sintetizzabile attraverso la definizione di “capitalismo di stato”, all’interno del quale direzione e controllo dello Stato sulle scelte imprenditoriali assumono un peso incomprensibile agli occidentali. Si profila quindi un confronto sempre più aspro tra due mondi profondamente diversi, che rende ancor più difficile la nascita di un sistema di regole globali, indispensabile per evitare che l’economia internazionale sia dominata da colossi sfuggenti a qualsiasi autorità pubblica.

  • Quale messaggio si potrebbe lanciare oggi ai giovani, considerando il cammino che compiono alla ricerca della realizzazione e della personale identità, e considerando la loro grande apertura al mondo globale e alle sue dinamiche?

Abbiamo bisogno di una globalizzazione più equa, governata da regole stabilite democraticamente e in grado di tutelare i più deboli e offrire opportunità a tutti. L’impossibilità per gli Stati nazionali di governare processi mondiali genera in molti casi scenari dove vige la legge del più forte, cioè di multinazionali interessate esclusivamente a perseguire obiettivi di profitto. Governare la globalizzazione è la sfida dei prossimi decenni e le più giovani generazioni devono farsi carico di rafforzare gli elementi positivi e ridurre le distorsioni, soprattutto individuando forme più orizzontali di redistribuzione della ricchezza. La politica deve riprendere il ruolo che le è stato sottratto dai grandi potentati economici e finanziari, avviando uno straordinario processo riformatore che deve necessariamente prevedere la manutenzione delle organizzazioni internazionali esistenti e la nascita di nuove. Ma l’avvio di un nuovo corso è possibile solo se alla base vi è un grande sogno, come quello di una società mondiale regolata dalla legge fondamentale della coesistenza fraterna: e il compito di sognare, come sempre, spetta ai giovani.  

  • Ammesso che la storia possa presentarsi come “un intreccio significativo di persone, culture, economie, religioni, avvenimenti che hanno costituito processi di grande rilevanza per la comprensione del mondo attuale”, qual è secondo lei il ruolo dello storico nell’odierno contesto geopolitico?

La storia è stata negli ultimi anni pressoché espulsa dal dibattito pubblico, sia per la fiducia sproposita accordata alle cosiddette scienze esatte, ritenute più utili e immediatamente applicabili, sia per l’appiattimento sulla dimensione del presente, presentata come esclusiva e quindi abilitata ad esautorare passato e futuro. Memoria e sogno, capacità di analisi e progetto, appaiono esercizi retorici, privi di alcuna utilità. Gli storici di oggi dovrebbero riconoscere il contesto in cui operano e accettare la sfida, provando a valorizzare il contributo della scienza storica in un quadro interdisciplinare, a collegare maggiormente le indagini alle domande del presente, a dimostrare ancora una volta che a spingere alla conoscenza del passato è la passione per i vivi e non per i morti.     

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