Il caffè napoletano protagonista anche al cinema e nella musica, da Eduardo De Filippo a Troisi fino alla ciofeca di Totò.
La parola caffè è araba. La pianta è etiope. In Europa arriva prima a Vienna. In Italia la portano i veneziani. Ma alla fine ‘o cafè è napoletano. Ce lo siamo davvero scritto addosso, questo romanzo popolare del caffè, e lo abbiamo fatto così bene, insinuandolo così a fondo nelle abitudini, nella cultura del quotidiano, nei movimenti, nell’idea, nell’epica letteraria, nel racconto cinematografico, che oggi alla parola caffè segue subito Napoli.
IL CAFFÈ NAPOLETANO NEL CINEMA
“Che stress, questo traffico, nun me ne parlate”, diceva sbuffando un vigile urbano in divisa in Così parlò Bellavista, mentre sorseggiava un caffè al bar.
“Vi siete mai chiesti che cos’è un caffè? – domandò una volta l’ingegnere De Crescenzo -. Un caffè è una scusa per dire a un amico che gli vuoi bene”.
Per Eduardo De Filippo, in Questi fantasmi, più della bevanda – a cui dedicava un rito minuzioso – poteva il bisogno di pigliarsi “nu poco ‘e sole” sul terrazzino.
“Questo caffè è una ciofeca!” sbraitava, invece, il principe De Curtis nel film “Totò a Colori” facendo dilagare, da quel momento, un termine diventato di uso comune per indicare un caffè imbevibile.
Totò, nella Banda degli onesti, il caffè al bar lo utilizzò per spiegare a Peppino De Filippo (Lo Turco) come funziona il capitalismo: a uno il caffè amaro, all’altro la tazzina colma di zucchero fino all’orlo.
No, grazie, il caffè mi rende nervoso, urlava, infine, Lello Arena nel suo indimenticato film, dove l’ironia sulla napoletanità si coniugava già con l’amore critico, un po’ aspro, che abbiamo poi imparato ad amare (amaro) con Massimo Troisi . ” Napule nun adda cagnà“. L’Italia conosce uno dei primi film noir in salsa napoletana, destinato a diventare un cult. No grazie, il caffè mi rende nervoso. E con il film nasce il personaggio di Funiculì funiculà.
Nino Manfredi, invalido napoletano che in Cafè express (film di Nanni Loy) passa con un thermos a vendere abusivamente caffè sul treno Vallo della Lucania-Napoli, la bevanda serve a raccogliere storie, ad ascoltare gli uomini.
“Ah, che bellu cafè, pure in carcere ‘o sanno fa, co’ ‘a recetta ch’a Cicirinella compagno di cella ci ha dato mammà”, è il ritornello di Don Raffaè, la canzone che il cantautore genovese Fabrizio De Andrè ha dedicato alla situazione delle carceri.
E il verso rimanda a un’altra celebrazione, quella di Domenico Modugno, che al caffè napoletano, con le parole di Riccardo Pazzaglia, dedicò nel 1958 un brano famosissimo. “Pe’ vevere ‘o cafe’ se trova ‘a scusa, Io ll’offro a ‘n’ato e ‘n’ato ll’offre a me; nisciuno dice “no” pecche’ è n’offesa. So’ già sei tazze”.
Pino Daniele, che cantava già, in “Na’ tazzulella ‘e cafè”, che “Nuje ce puzzammo e famme, o sanno tutte quante; e invece e c’aiutà – e qui la parola diventa profetica – c’abboffano ‘e cafè”.
IL CAFFÈ PORTAVA MALE
Non c’è la bevanda senza il rito. E non c’è il rito senza questa città. E dire che questo strano intruglio a Napoli pareva addirittura portare male. Nessuno voleva il caffè perché era nero. Ma ci pensò Maria Carolina D’Asburgo, sposa del re Ferdinando IV, a introdurre a corte l’abitudine viennese. Fine Settecento, il caffè del regno di Napoli. E la coppia più profumata del mondo non si è più separata.
La cuccuma entra in tutte le case e imperversa durante l’Ottocento. Anche questa, però, pur definita caffettiera napoletana, ha origini altrove: la inventa un francese. Insomma, dopo esserci presi il caffè, ci prendiamo anche la caffettiera. Tutto si mescola nella cultura popolare, non è dove nasce ma come vive, il rito, e qui esplode. Il numero 42 nella smorfia.