La grande affermazione di Trump alle elezioni ha suscitato, con molta tempestività, congratulazioni e auguri da parte dei potenti. Sono arrivate le felicitazioni del presidente tedesco, che parla di un’era con gli Stati Uniti sempre più forti sotto la guida di Trump, mentre addirittura qualche giorno fa si paventava un ritiro degli Stati Uniti dal sempre più complicato scenario europeo alle prese con la guerra in Ucraina e con lo spettro della recessione. Anche dalla Comunità Europea, per bocca di Ursula von der Leinen, arrivano congratulazioni vivissime, con l’auspicio di “promuovere un forte programma trans-Atlantico ribadendo questa alleanza con gli Stati Uniti che va oltre una semplice alleanza”, infatti, continua la Presidente della Commissione Europea, “è una parte della partnership fra popoli, che unisce 800 milioni di cittadini e continua un impegno per la democrazia e la libertà, la sicurezza e il lavoro per tutti”, con milioni di posti di lavoro che potrebbero dipendere anche dall’atteggiamento futuro di Trump. Pure Macron ha parlato di piacere nel lavorare insieme e di poter costruire risultati “con le sue convinzioni e le mie, con rispetto ed ambizione per più pace e prosperità”. Il Primo Ministro britannico Keir Starmer si è congratulato, affermando che “Non vede l’ora di lavorare con Trump negli anni a venire, come alleati molto molto vicini per la difesa della libertà, della democrazia e dell’impresa. Il premier indiano Narenda Modri ha definito Trump un amico, auspicando collaborazioni a livello globale per promuovere pace, stabilità e prosperità.
Un entusiasmo di cliché, anche se inaspettato ed enfatico. Ma dietro restano anche delle perplessità per quella che potrà essere la futura condotta del neoeletto presidente. Comunque Trump statisticamente è il primo presidente che si insedia con due condanne penali a carico, ed anche il più anziano con i suoi 78 anni. Le preoccupazioni del mondo industriale europeo, in particolare di quello relativo alla costruzione delle automobili, sono piuttosto serie, anche per il pericolo dei dazi di Trump nei confronti, ovviamente, non solo del Giappone ma anche dell’Europa. Essenzialmente, comunque, c’è questo ampio consenso, quasi un entusiasmo, per un attimo è sembrato che le diplomazie europee, e non solo, fossero prese fra il politically correct e la prudenza, staremo a vedere. Ma cosa è accaduto oltreoceano? A qualcuno è sembrato che la politica dei democratici ha forse preso con sufficiente leggerezza lo schierarsi automatico da parte di coloro appartenenti a categorie che necessariamente venivano inquadrate tra i sostenitori, come quelle che lottavano per i diritti riproduttivi, per l’uguaglianza di genere, per le libertà fondamentali e il primato della democrazia, per il ruolo delle donne. L’esito del voto potrebbe far pensare al venir fuori, ancora una volta, di un’anima americana, più o meno percettibile, che ha fatto la differenza. Un “anima” preoccupata dei grandi cambiamenti, dell’aumento dei prezzi, di una sorta di precarietà economica, argomenti più impellenti e drammatici, forse, rispetto ad altri. Trump ha cavalcato questo sentimento, riesumandolo e rafforzandolo. Una recentissima pubblicazione dell’Università Ca’ Foscari di Venezia riporta: “Lungo la ‘campaign trail’, Trump ripeteva che gli Americani non possono permettersi più il bacon, la pancetta, come emblema del declino della società americana ‘autentica’… “Ma guardando l’inflazione galoppante, molti Americani non si possono più permettere nemmeno le uova. La precarietà economica e la povertà alimentare toccano fette sempre più cospicue della società americana”. Contenuti ben più pressanti e trasversali. Con l’elezione di Trump si verifica un fallimento del tentativo messo in atto dai democratici di accorpare quelle ampie frange del tessuto sociale americano inglobandole nelle etichette sociali, e se vogliamo anche razziali, dando per scontato che il semplice schierarsi a favore di queste componenti poteva generare già un conseguente, sicuro consenso. La vittoria di Trump dimostra che la situazione è alquanto più complicata, andando ben oltre i diritti di queste componenti, di queste minoranze o di queste ampie maggioranze, evidentemente la semplificazione effettuata dai democratici sembra non avere avuto successo. Vi era forse bisogno di una disamina molto più attenta, che non perdesse di vista altre storiche considerazioni, come quelle dei sedimentati sentimenti nazionalistici americani presenti in maniera assolutamente trasversale, anche nei settori che si pensava afferissero naturalmente al voto democratico. Quindi c’è un’anima dell’America che è venuta fuori in maniera forte, preponderante, quasi devastante visti gli esiti elettorali, e per la quale nessuno aveva avuto sufficiente attenzione, per lo meno fino ad ora, nello schieramento di Kamala Harris. Il mito W.A.S.P., White Anglo Saxon Protestant, ampio gruppo sociale influentissimo nell’America in maniera marcata fino al termine degli anni sessanta, ma notevole e di peso ancora oggi, è riaffiorato: l’acronimo bianco anglo-sassone protestante ha dimostrato di raggruppare ancora idee, convinzioni, tradizioni di dilatate fasce di popolazione in modo così autorevole da poter ancora fare la differenza. E forse ne ha mostrato addirittura un’evoluzione di questa conformazione sociologica di bianchi altolocati, di origini protestanti, discendenti britannici che ormai pur non essendo più tali, sono stati sostituiti da coloro che ne hanno conservato gli orientamenti, le dottrine, le concezioni, le forme di pensiero. Qualcuno starà riflettendo su ciò nel partito Democratico, e non solo.