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“A Grazia non sfugge che scrivere sia per le donne un sacrificio doppio o forse triplo, rispetto a quello di un uomo. Dedicare il proprio tempo alla letteratura costringeva quasi sempre a escludersi dal mondo in cui le altre donne si muovevano, eppure affronterà senza rimpianti questo sacrificio” spiega Laura Vellieri docente di lettere.

Da anni si parla di rivendicare e valorizzare il ruolo che hanno assunto le donne nel canone letterario, eppure la strada da fare resta ancora tanta.

Passano in secondo piano, e molte volte all’ interno dei manuali scolastici sono menzionate poco o niente affatto.

All’interno di questo “dibattito” rientra anche la scrittrice Grazia Deledda (1871- 1936) vincitrice nel 1926 del premio Nobel per la Letteratura.

Quinta di sette figli, molto legata al padre Antonio con una infanzia e una adolescenza segnata da sciagure e lutti familiari, la Deledda custodisce e realizza il suo sogno, quello di diventare una scrittrice.

Nel 1900 lascia la Sardegna e dopo essersi sposata con un impiegato si trasferisce nella capitale. L’allontanamento dalla sua terra d’origine fu per lei doloroso, e tale tema rientra anche nei suoi romanzi, come un senso di colpa, un “peccato di sradicamento”.

A Roma la scrittrice conduce una vita appartata lontana dalla mondanità, ricoprendo con tenacia e passione tutti i ruoli che le spettano, di donna, scrittrice, madre e moglie.

Il suo capolavoro resta il romanzo “Canne al vento” definito da Mauro Novelli:” Un libro sardo, ostinatamente sardo, integralmente sardo, sebbene di respiro universale”.

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