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Chirurgo all’ospedale di Treviglio racconta cosa accade in corsia: «Portiamo i messaggi ad amici e parenti». Come cambia la vita quotidiana: «Mi sono tagliata i capelli e vedo i figli con la mascherina»

di Giuliana Ubbiali

Medici in ospedale in lotta con il coronavirus, foto di repertorio

«Un attimo che tolgo la mascherina, faccio una pausa». L.B., chirurgo all’ospedale di Treviglio, non sta rispondendo al telefono dalla corsia. È a casa, per tirare il fiato, dove ha un marito, un bambino e una bambina che non può abbracciare né lasciar avvicinare. Dietro agli eroi di questa emergenza, «ma quali eroi…», dice lei, ci sono storie di sacrifici non solo nelle ore che non si contano più tra barelle e letti ma anche nelle loro, di famiglie. Aveva i capelli biondi lunghi sulla schiena, la dottoressa, e li ha tagliati cortissimi. Non è un vezzo, ma un’immagine potente della sua rinuncia come donna per continuare ad essere medico e mamma. «Quando sto per arrivare a casa avviso mio marito perché tenga i bambini lontani. Vado in bagno, butto tutto da lavare, sto sotto la doccia per 40 minuti, mi sfrego con acqua e sapone. Poi mi infilo la mascherina e, comunque, tengo i miei figli a distanza. Ho tagliato i capelli corti per evitare il più possibile di portami a casa qualcosa».

A casa, di sicuro, si porta gli occhi colmi di immagini inedite anche per un medico da sala operatoria. Ormai, anche le mani devono avere in memoria le manovre di rianimazione per salvare il salvabile. Voleva fare il medico e non lo rinnega. Voleva una famiglia e la vuole proteggere. «Ma noi medici non dobbiamo essere messi nelle condizioni di fare quello che facciamo. Qui ci sono delle responsabilità con nomi e cognomi. La zona rossa della Valle Seriana andava istituita subito. Gli studi epidemiologici erano chiari, dall’inizio di Wuhan, e la scienza non è un’opinione».

È arrabbiata, «stiamo in piedi con la rabbia. Non abbiamo gli strumenti per intervenire su tutti, oltre che le protezioni». Non è solo il mantra che arriva da più voci negli ospedali. È cruda, lei, con gli esempi, perché il soldato in corsia non ha tempo ed energia per essere diplomatico con le parole. «Il paziente va in arresto respiratorio, gli pratichi il massaggio cardiaco perché no, tu medico non riesci a lasciarlo morire, ti guarda. E quando lo devi intubare? Il tubo ce l’hai ma non hai il ventilatore. Quindi? Età e comorbidità sono criteri di esclusione dalle manovre. Adesso dobbiamo intubare i quarantenni. Se domani arrivo io con il diabete, per fare un esempio, vengo dopo di lui. Si discute tanto di eutanasia, ma queste sono persone che, se avessimo i presidi, potrebbero farcela».

«Ti guarda, il paziente», dice la dottoressa, 50 anni. In quel momento, il medico non è solo un paio di mani che premono disperatamente su un torace o infilano un tubo in gola, quando può. È anche l’unico ponte tra il paziente e il mondo fuori. Mogli e mariti, figli e nipoti che aspettano notizie dietro all’enorme vetro dell’isolamento collettivo. «Il paziente sa che cosa sta succedendo, glielo leggi negli occhi. “Dica a mia moglie che la amo” o “mandi un saluto alla mia nipotina appena nata che non ho potuto vedere”, ti dicono. Ai pazienti riportiamo le parole che i loro familiari ci consegnano al telefono, i bigliettini con i messaggi e i disegni dei nipotini che ci portano, restando fuori. Ai parenti, diamo al telefono le notizie dei decessi. Ho dovuto comunicarlo a due figli di un paziente che abitano distanti l’uno dall’altra. Non hanno nemmeno potuto piangerlo insieme. Non dico tenergli la mano, perché nemmeno noi possiamo farlo. Muoiono soli e vengono portati in camera mortuaria avvolti in un telo con il disinfettante. Noi medici resistiamo, dobbiamo, ma siamo già vicini al crollo psicologico per la fatica, le ansie, e perché stiamo perdendo amici cari».

I medici, quelli che ancora resistono. «Un collega con la moglie incinta si è trasferito con un altro in un B&B. Decine e decine si stanno ammalando. Vengono con la febbre ma non possiamo fare diagnosi, perché siamo troppo pochi, se non quando i sintomi sono tali che non si può più stare qui». Il suo qui è la metà del reparto di chirurgia all’ottavo piano «pulito», cioè senza malati di covid-19, perché l’altra metà, sullo stesso piano, ha i contagiati. «Cosa faccio? Dove sono malati vado bardata con la cuffia, la mascherina, due camici di stoffa perché mancano quelli più protettivi. Poi mi fermo a metà corridoio per comunicare al personale i dati dei pazienti. Il rischio, andando da una parte all’altra, è di contagiare». Domenica, si è aggiunto il turno al pronto soccorso: «Ci sono pazienti in bagno, per isolarli. Oppure che restano in ambulanza, li visitiamo lì». Ha staccato, la dottoressa, per stare qualche ora a casa con la sua famiglia, la mascherina e i bambini a distanza. Ha staccato, sì. «Sto aspettando gli esiti di due tamponi. A due ragazzi del 1973». E poi arrivano: uno positivo e uno negativo. «Sono felice, a metà».17 marzo 2020 | 09:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

Fonte: https://bergamo.corriere.it/

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