Quale rapporto c’è in Italia tra il cinema e la politica? Alla Casa del Cinema, all’interno della romana Villa Borghese, quando si entra appare un bancone ricco di comunicati dedicati alla programmazione della struttura, e non solo: si possono trovare anche riviste interessanti, come “8 1/2 . Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano”, un bimestrale realizzato da Cinecittà e diretto da Giancarlo Di Gregorio. Sotto gli occhi del visitatore capita la copia numero 62, che in copertina presenta l’intrigante titolo “Il cinema italiano e il racconto della politica: un’attrazione fatale?”, corroborato da due frasi pubblicate in fondo alla rivista, ovvero “Se voi non vi occupate di politica, la politica si occupa di voi”, dal film “La sposa in nero” di François Truffaut, e “Abbiamo tutti bisogno di un balcone dal quale recitare la parte dei protagonisti. La differenza è che ci sono buoni attori e cattivi attori. E agli italiani piacciono soprattutto le cattive rappresentazioni”, testo pronunciato da Sergio Castellitto nei panni di Gabriele d’Annunzio in “Il cattivo poeta” di Gianluca Jodice.
Numerosi i testi da sottolineare, grazie a contenuti degni di riflessione: c’è Gianni Canova con “Le maschere del potere”, dove rileva che “quando racconta la politica il cinema italiano rompe gli argini del realismo e slitta quasi sempre verso il grottesco o verso l’apologo. Come se non riuscisse a rappresentante il potere (anche quello democratico) senza cadere nei luoghi comuni del complottismo e della diffidenza populista”. Segue la citazione di un cinema di qualità, internazionale, che trova una degna presenza con “Lincoln” di Steven Spielberg, “per capire come sia possibile anche nel cinema e con un film offrire una rappresentazione alta, non edulcorata, problematica e appassionante della politica vista come sublime arte della negoziazione e del perseguimento del bene comune”.
Inevitabile poi il confronto con la scena italica, con le pellicole dove protagonista è Cetto La Qualunque, la maschera più riuscita di Antonio Albanese, “prototipo ante litteram del populismo italiano”, e poi “Il divo” di Paolo Sorrentino con Toni Servillo travestito da Giulio Andreotti. In un’Italia dove tutto “diventa smorfia, ghigno o pernacchia”. E meno male che Canova non ha citato “All’onorevole piacciono le donne” di Lucio Fulci, con Lando Buzzanca. Lo stesso Canova poi, alcune pagine più in là, intervista Massimo Popolizio che interpretò Vittorio Sbardella nel film già citato di Sorrentino: «Dovevo dare al personaggio un tratto di volgarità romanesca che fosse però anche, nello stesso tempo, un tratto di autorevolezza».
Se il politologo Angelo Panebianco rileva che tra coloro che creano i prodotti per il grande schermo c’è “una diffidenza antica e radicata nei confronti del potere pubblico in ogni sua forma” citando “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri e “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi, Alberto Mingardi evidenzia con sagacia che “il rapporto dell’artista con il potere è sempre travagliato. Da una parte, gli artisti dal potere hanno sempre dipeso: per le risorse con cui fare il proprio mestiere ma anche per gli onori, per quel riconoscimento pubblico che è una molla fondamentale del loro agire. L’artista che si pensasse uomo ‘di mercato’ si affiderebbe soltanto all’apprezzamento del pubblico. Non solo farlo è rischioso, significa esporsi ai venti mutevoli del gusto dei più”. Senza dimenticare la figura di Silvio Berlusconi, perché “il suo successo e la sua popolarità sono difficili da decrittare col cifrario dell’intellettuale italiano, e quindi anche del cineasta”. Segue, immancabile, la citazione del film di Nanni Moretti dedicato al Cavaliere, “Il Caimano”. E pure Sorrentino con “Loro”. Alla filmografia nata per raccontare la storia berlusconiana è dedicato un testo di Carmen Donaiuti che ricorda anche i lavori di Erik Gandini, Roberto Faenza e Filippo Macelloni.
Enrico Vanzina, Daniele Luchetti, Massimiliano Bruno e Riccardo Milani, intervistati da Margherita Bordino e Carlo D’Acquisto, raccontano i politici che hanno ispirato i loro film. Rocco Moccagatta evoca i “Dis/onorevoli”, ovvero “quando i parlamentari sono ridicoli”, partendo da “Gli onorevoli” di Bruno Corbucci, “cinque episodi per cinque improponibili candidati alle elezioni”, dove c’è quel “Vota Antonio!” del monarchico Totò che ha reso popolare la pellicola. Anton Giulio Mancino indaga sul cinema dedicato a Benito Mussolini con “Ciak, si duce!”, tra “Vincere” di Marco Bellocchio, con Filippo Timi, e “Il delitto Matteotti” di Florestano Vancini, con Mario Adorf. Nicole Bianchi evoca Aldo Moro, tra gli attori che lo hanno interpretato: “Gian Maria Volonté, Roberto Herlitzka, Paolo Graziosi e Fabrizio Gifuni. Cristiana Paternò ricorda la fiction televisiva di RaiUno “De Gasperi, l’uomo della speranza” di Liliana Cavani e “Hammamet” di Gianni Amelio, dove Pierfrancesco Favino “offre una delle sue celebrate interpretazioni mimetiche”.
La saggezza di Alberto Anile diventa a questo punto irrinunciabile per tracciare una conclusione: per lo storico del cinema sono state tracciate tre vie, dai registi, per raccontare la politica. Il terzetto risponde ai nomi di Elio Petri, Roberto Andò e Nanni Moretti. I riferimenti? “Todo modo” per il primo, un film sequestrato a causa della scena dello sterminio di una classe dirigente e che “dovette soccombere alla cronaca: quando le Brigate Rosse uccisero per davvero il presidente della Dc, la circolazione della pellicola rischiò di passare per istigazione all’omicidio”. Carattere principale del film petriano, la sfrontatezza. “Le confessioni” per il secondo, che “amplia il discorso alla politica globale”. “Habemus Papam” e “Palombella rossa” per il terzo, tra “un politico che si ritira” e “un dirigente di partito che denuncia con l’amnesia la necessità di un cambiamento”. Anile, astutamente, alla fine pone la domanda del secolo: “A quando una quarta via, un film che, senza cadere nell’agiografia o nel cinema di propaganda, riesca a tessere l’elogio del buon politico?”.