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Il patrimonio culturale non è paragonabile al petrolio inquinante e puzzolente

di Gerardo Pecci

Il nostro immenso patrimonio culturale sarebbe legato a una visione petrolifera perché secondo Salvatore Italia esso è unito al destino storico di «un paese che invoca l’arte come petrolio del futuro» (S. Italia, Presentazione, in “L’occhio del critico. Storia dell’arte in Italia tra Otto e Novecento, a cura di A. Masi, Vallecchi, Firenze 2009, p. 5). Pensare il patrimonio di civiltà, di arte e cultura italiano come petrolio è purtroppo divenuto una specie di slogan, usato e abusato da una classaccia di falsi intellettuali, dagli ignoranti e da tutti coloro che lo sono in fatto di arte e di storia dell’arte e pretendono di esprimere giudizi su argomenti che non conoscono.  Una frase come “il nostro patrimonio culturale è il petrolio per l’Italia” suona alquanto stonata, specie se a esprimere questo pensiero è stato un personaggio che ha ricoperto ruoli importanti nel Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, ora vergognosamente declassato a semplice Ministero della Cultura, e che ha perso di vista i beni culturali e ambientali, spariti dalla dizione ufficiale. Evidentemente, Salvatore Italia, già nel 2009, anticipava quanto poi è successo ossia ha previsto una visione meramente e vergognosamente mercantilistica, capitalista e liberista, del patrimonio culturale con grandi “attrattori” da sfruttare, come il Colosseo, gli Uffizi, Pompei, Venezia e pochi altri monumenti o “luoghi della cultura” diventati, o in procinto di diventarlo, grandi “Luna Park” dove è sempre più difficile ricercare il senso della storia e dell’Umanità.

L’importante è che i beni culturali e paesaggistico-ambientali diventino merce da sfruttare per fare bottino, per fare cassa, non importa come. Di conseguenza, invocare l’arte come «petrolio del futuro» è cosa da far rabbrividire e far infuriare tutti coloro che realmente hanno a cuore le sorti di questo patrimonio, che non è certo puzzolente e inquinante quanto il petrolio. Il petrolio, con i fumi dei tubi di scarico delle automobili e non solo, corrode i nostri marmi, le facciate dei nostri edifici architettonici più preziosi, le statue, le opere della cultura e dell’ingegno umano poste soprattutto all’aperto. Il petrolio si consuma e consuma inquinando. I disastri degli idrocarburi li conosciamo tutti, a cominciare dai danni alla salute degli esseri viventi. È bene chiarire, una volta per tutte, che i beni culturali non sono petrolio, non possono essere minimamente paragonati al nero petrolifero, sono preziosi e importanti per noi perché sono prodotti della libertà culturale e la «cultura dipende da noi non dalla geologia» come ci ricorda Bonami in un suo articolo sul quotidiano “La Stampa” del 23 giugno 2011. I beni culturali devono conservarsi e non consumarsi come invece fa il petrolio. Noi parliamo di conservazione e tutela del patrimonio culturale, non della sua consumazione. Vittorio Emiliani, da fine intellettuale, ha perfettamente messo in rilievo che il binomio patrimonio culturale/petrolio è un’espressione «due volte sciagurata perché, oltre ad accostare semanticamente monumenti, palazzi, chiese, centri storici, paesaggi a un ‘nemico’ dei più insidiosi, suggerisce che quei beni fragili e preziosi ‘devono’ per forza rendere dei bei soldi» cioè il patrimonio culturale, come il petrolio, deve essere messo spudoratamente a reddito, deve fare cassa per le dissestate e direi anche dissennate finanze pubbliche italiane, considerato il grande debito pubblico che grava sulle spalle di tutti i cittadini. Ed è proprio quello che sta succedendo.

Già nel 2016 si criticava fortemente il biglietto di ingresso al Colosseo (https://emergenzacultura.org/2016/11/30/vittorio-emiliani-il-governo-si-prende-i-soldi-del-colosseo-55-60-milioni-allanno/). Infatti, l’auspicato aumento del biglietto di ingresso in alcuni musei, come vuole l’attuale ministro Sangiuliano, giornalista prestato alla politica, e la recente introduzione del biglietto di entrata al Pantheon vanno proprio in questo senso, con la giustificazione che i soldi servono per la manutenzione ordinaria e per il restauro di monumenti e opere d’arte. Nel caso specifico del Pantheon i soldi dei biglietti finiscono per essere intascati in parte dal Ministero della Cultura, in parte dal Comune di Roma “Capitale” e in parte dalla Diocesi di Roma, visto che il grande monumento architettonico romano è chiesa cattolica: per ragioni diverse ci guadagnano tutti. Ma per fare chiarezza va ribadito in modo forte e coerente che il patrimonio culturale è bene comune ed è svincolato da qualunque concetto riguardante la sfera puramente economica. Così lo stesso concetto di valorizzazione non è da intendere come “messa in valore” di tipo esclusivamente economico, ma come strumento legato alla migliore conoscenza, allo studio e alla più efficace ed efficiente pubblica fruizione del patrimonio culturale in quanto portatore di valori di civiltà e si lega indissolubilmente a quello primario della tutela che come sappiamo spetta in via diretta allo Stato per dettato costituzionale (Art. 9 della Costituzione).

In ultima analisi va detto a chiare lettere che bisogna agire al più presto, attraverso una migliore conoscenza del nostro patrimonio culturale se non vogliamo finire per perdere quanto di più prezioso noi abbiamo ricevuto in eredità da chi ci ha preceduti. E la scuola e l’università hanno il dovere morale ed etico, prima che istituzionale, di insegnare alle giovani generazioni che solo attraverso la conoscenza di questo enorme patrimonio culturale e una rinnovata e diversa politica di tutela e di valorizzazione potranno tentare di garantire la trasmissibilità di esso alle future generazioni. Ma senza il falso assioma del petrolio puzzolente.

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