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Parla lo psichiatra Federico Russo, direttore scientifico de Lo Spiraglio Film Festival, alla 13esima edizione.

«Un ragazzo down porta tra le braccia l’urna con le ceneri di sua madre appena defunta. Nella testa di suo fratello, che gli cammina al fianco, un groviglio di pensieri e di interrogativi sul futuro, precipitati improvvisamente sulle sue spalle: la casa, la sorte del famigliare, le responsabilità delle scelte… Ma sarà grazie alle inaspettate risorse di quel ragazzo down e alla sua geniale quanto inusuale visione del mondo che la vita tornerà a sorridere a entrambi». È una scena di An irish goodbye, il film dei giovanissimi Tom Berkeley e Ross White che quest’anno ha vinto l’Oscar nella sezione cortometraggi live action. Ma prima del prestigioso Academy award era già stato selezionato tra i finalisti della 13esima edizione de Lo Spiraglio Filmfestival della salute mentale che si conclude oggi al museo Maxxi di Roma. A raccontarla, perché è tra quelle che lo hanno colpito di più, è lo psichiatra Federico Russo che dirige per la parte scientifica, insieme a Franco Montini per quella artistica, il Festival organizzato da Roma Capitale e dal Dipartimento Salute Mentale della Asl Roma 1, in collaborazione con la Regione Lazio e lo stesso Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Nella giuria che sceglierà tra i 7 lungometraggi e gli 11 corti in concorso, selezionati quest’anno tra 160 film, c’è anche Alessio Cremonini, regista di Sulla mia pelle, il film che ricostruisce la storia di Stefano Cucchi.

Da quando ha fondato il Festival, 13 anni fa, come è cambiata l’attenzione sul tema della salute mentale?

Sinceramente, a volte mi chiedo se abbia senso continuare. Da un lato c’è un’attenzione altissima da parte del cinema, attori e registi. E in questi anni migliaia di operatori sanitari, utenti, familiari hanno partecipato al Festival. Anche i giornalisti mostrano interesse alla salute mentale, anche se troppo alla ricerca dello scandalo, l’incidente, il femminicidio, il raptus… Ma mi chiedo: la gente comune dove sta? Dove sono i giovani, gli universitari, gli studiosi di medicina o psicologia?

Eppure i temi trattati sono tanti: dai migranti alle problematiche giovanili, l’anoressia, i suicidi, gli errori giudiziari, le istituzioni totali…

Ma anche messaggi positivi: l’altra sera c’era Io e Spotty, una bella commedia con soluzioni poetiche inattese, che invita ad essere se stessi e non i replicanti delle attese altrui. Nella fiction, i due giovani costruiscono un rapporto amoroso i cui lei accudisce come dog sitter lui, che si maschera da cane tutte le sere. Un rapporto assurdo, che però li aiuta a trovare se stessi più delle maschere che sono costretti a indossare fingendosi di successo, di qualità o impegnati.

La malattia mentale è ancora uno stigma. Un festival può scardinare certi pregiudizi?

Il materiale che abbiamo è straordinario, fa riflettere, permette alle persone di pensare la salute mentale. Cosa che normalmente non si riesce a fare, a meno che non si è coinvolti direttamente dal disturbo psichico, per esperienza personale o per lavoro. Il festival è una formula preziosa per avvicinare il grande pubblico al tema. Però io sento un po’ di ritrosia, di disinteresse. Che non è stigma: è proprio pigrizia mentale.

Qual è il peggior nemico culturale, oggi, della salute mentale?

La rappresentazione del personaggio anziché della persona. Quella rappresentazione edulcorata e consumistica che mira a usare il tema della salute mentale per costruire personaggi consumabili. E poi la cronaca nera, quella con il dito puntato, alla ricerca scandalistica della colpa, di qualcuno che non ha fatto il proprio dovere.

Cos’è il contrario di «salute mentale», malattia psichica?

Quello di salute mentale è un concetto straordinario, e anche molto difficile. Intanto perché per sapere se una mente è sana o malata bisognerebbe conoscere bene la funzione più misteriosa dell’essere umano. E spesso su queste aree di confine – sano e malato – si fanno pasticci. È facile dire: la cosa non mi riguarda. Se però definiamo il paradigma non a partire dalla malattia mentale ma dalla salute mentale, ci rendiamo conto che il tema riguarda tutti. Naturalmente noi operatori possiamo occuparci solo di chi ci chiede aiuto, di chi ha consapevolezza del bisogno. E a volte ci occupiamo anche della società, che spesso ci chiede aiuto. Però la società non può dichiarasi estranea al problema. Le nuove tecniche, come la psicoanalisi multi familiare, tirano dentro tutto il contesto ambientale. Non basta dire: curateli e restituiteceli.

Le istituzioni fanno abbastanza?

Bisogna dire che in tantissime regioni italiane i servizi di salute mentale, pubblici e gratuiti, sono ancora al servizio della cittadinanza: gli accessi sono immediati e facili, non serve neppure una prescrizione. Però se gli investimenti si spostano troppo sulla residenzialità e ancor di più su quella privata accreditata, le risorse allocate – che per la salute mentale sono sempre insufficienti – asciugano i servizi di prossimità, che aiutano le persone nella loro comunità reale. Ovviamente se la comunità si disinteressa e si allontana, e se la politica sostiene questo trend anche per interessi economici, la macchina si inceppa e i pazienti si allontano dal nostro monitor. È un meccanismo molto pericoloso.

L’uso degli psicofarmaci come metodo di contenzione dei migranti nei Cpr: cosa ne pensa?

La prescrizione di una psicofarmaco è un atto medico singolo, calibrato sul paziente. Ma sappiamo per certo – ce lo insegnano le tragedie delle istituzioni totali – che i medici in situazioni ambientali estreme rischiano di agire in modo non del tutto appropriato . Se il medico opera in una situazione troppo caotica, disordinata, sotto la pressione dell’emergenza – come sono i Cpr, ambienti non adeguati alla salute delle persone – inevitabilmente le sue prescrizioni saranno meno puntuali e meno idonee ai bisogni dei pazienti.

Cosa può dirci del signor Bruno, affetto da «picacismo», che da 16 anni vive in una struttura, con le mani legate e una maschera sul volto per evitare che ingerisca tutto ciò che vede?

Da cittadino, la maschera di ferro – che rimanda a pratiche da Medioevo – non può che mettermi a disagio. Dovremmo però chiederci come possiamo sostituire quell’oggetto così degradante, sia per il signor Bruno che per gli operatori che da 16 anni si occupano di lui. Si può sostituire la maschera con una o più persone che controllino il paziente h24. Se lo Stato è in grado, quella è la misura più adeguata, e forse anche più potenzialmente trasformativa. La medicina non cura tutto, purtroppo: il picacismo è un sintomo, non la malattia. Se il sintomo è resistente, le soluzioni ci sono. Ma sono impegnative e costose.

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