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I dati ufficiali parlano di circa 11.200 persone sbarcate sulle coste della penisola dall’inizio del 2025, circa 4500 migranti in meno rispetto all’anno scorso e circa 14.000 in meno rispetto al 2023. Le cifre fornite dal Ministero degli Interni sono aggiornatissime. Nella giornata del 7 aprile “sono state 180 le persone registrate in arrivo sulle nostre coste che hanno fatto salire a 1.945 il totale delle persone arrivate via mare in Italia ad aprile. L’anno scorso, in tutto il mese, furono 4.721, mentre nel 2023 furono 14.506. Dei quasi 11.200 migranti sbarcati in Italia nel 2025, 4.155 sono di nazionalità bengalese (37%), sulla base di quanto dichiarato al momento dello sbarco; gli altri provengono da Pakistan (1.454, 13%), Egitto (1.109, 10%), Siria (883, 8%), Eritrea (785, 7%), Sudan (489, 4%), Etiopia (450, 4%), Somalia (270, 3%), Tunisia (241, 2%), Algeria (166, 2%) a cui si aggiungono 1.158 persone (10%) provenienti da altri Stati o per le quali è ancora in corso la procedura di identificazione” (agensir.it).

Ma oltre a queste cifre, potrebbe essere oggetto di analisi l’atteggiamento che l’Europa ha avuto soprattutto negli ultimi 30 anni nei confronti delle nazioni che stavano a sud rispetto al suo confine, il nord dell’Africa ma anche alcune zone del centro Africa. Un rapporto commissionato appunto dall’osservatorio di politica internazionale a cura del CeSI (Centro Studi Internazionali), un organo istituzionale che abbraccia il Senato e la Camera dei Deputati, risalente a giugno del 2017, parla di vulnerabilità politiche della Cooperazione Europea in Nordafrica e Shael. In una prospettiva comparata nella introduzione si fa riferimento a una eccessiva compartimentazione adoperata, che ha rischiato di far sì che ci fossero degli sprechi e diminuisse l’efficacia degli sforzi compiuti, per quanto riguarda le molteplici sfide poste dal Mediterraneo all’Unione Europea. Pur volendo rifuggire da dettagliate disamine, che devono essere lasciate a qualificati analisti, risulta più o meno chiaro, però, agli occhi dell’opinione pubblica che il confine sud dell’Europa, e tutto ciò in esso contenuto, non abbia avuto precipue attenzioni dalle politiche comunitarie. E’ un po’ come se il nostro dirimpettaio che abitasse sullo stesso pianerottolo, si fosse dibattuto in condizioni economiche e di vita molto precarie, riuscendo appena e sopravvivere, mentre, al contrario, l’altro occupante dell’interno di fronte avesse potuto utilizzare ampie risorse e avere tenori di vita molto, molto, molto adagiati, rimarcandolo e ostentandolo con ricevimenti e intrattenimenti vari, e con lauti convivi.

Gli sforzi sono stati sempre piuttosto scarsi nel voler comprendere i vicini dell’Europa, tali per nostra scelta, e i problemi che vivevano e vivono, mentre ora risulta urgente capirne le difficoltà, intuirne le possibili soluzioni, capacitarsi (davvero) sulle impellenti necessità, cosa che non è stato mai fatto, quanto meno in maniera strutturale e sistematica. E’ un po’ come se questo nostro dirimpettaio sul pianerottolo volesse ora presentarci il conto, manifestare in maniera aperta e veemente questa sua condizione di disagio e di povertà, contingenza ancora più stridente in particolari scenari geopolitici e con una globalizzazione esasperata, con bambini che muoiono anche per semplici raffreddori, ma con il cellulare tra le mani. Resta alle varie componenti dell’establishment riflettere in maniera forse imbarazzata, triste, ma urgente e dettagliata, su cosa si possa ancora mettere in atto per questo nostro vicino, allorché i confini dell’Europa Unita sono stati segnati nel Mediterraneo il 1 novembre 1993.

E’ impellente la necessità di rafforzare i legami politici ed economici con l’Africa, non per un nostro tornaconto, ma per un autentico accrescimento di quelle popolazioni. Basti pensare che solo 14 km separano l’Europa dall’Africa e non c’è ancora una condivisione di interessi e responsabilità, anche se negli ultimi tempi l’Europa è tra i primi partner commerciali dell’Africa. Ma è stata anche un po’ riluttante nel voler focalizzare le grandi potenzialità di crescita dell’Africa, che sono straordinarie: secondo l’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili, l’Africa può generare fino a 310.000 MB di energia entro il 2030, solo sfruttando un poco delle sue risorse, e ciò fa ancor vergogna per l’Europa se si pensa che 600 milioni di africani, meno del 50% della popolazione, non hanno ancora accesso all’elettricità. Uno studio realizzato dall’ISPI, ha messo in evidenza che “In Africa il 60% della popolazione ha meno di 24 anni e negli anni a venire la percentuale è destinata ad aumentare come conseguenza dell’aumento complessivo della popolazione africana. In meno di 35 anni, la popolazione dell’Africa infatti raddoppierà, passando dagli attuali 1,2 miliardi ai 2,5 del 2050. Con questa rapida crescita demografica aumenteranno anche domande di servizi e lavoro. Si stima che a fronte dei 10 milioni di giovani che diventano forza lavoro ogni anno in Africa, oggi sono solo 3 i milioni di posti di lavoro creati annualmente. In futuro, per assorbire le nuove leve, ne dovranno essere creati almeno 18 milioni ogni anno. Di contro, la popolazione europea rimarrà sostanzialmente stabile nonostante una riduzione del tasso di fertilità, proprio grazie all’immigrazione. Nel 2050 un quarto della popolazione mondiale sarà dunque africana, e solo un ventesimo sarà europeo. Guardando alle fasce d’età, tutte le regioni del mondo tranne l’Africa avranno almeno un quarto della popolazione oltre i 60 anni. In Europa, dove già ora il 25% supera questa soglia, la percentuale salirà al 35%” (https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/africa-e-unione-europea-una-partnership-non-ancora-tra-pari-18908).

Qualcuno ha parlato di una sorta di “ingegneria politica” attraverso la quale l’Europa e l’Occidente continuano a mantenere una egemonia e un controllo sull’Africa, attraverso i finanziamenti, che sono anche in aumento, senza dare reali opportunità di liberazione e affrancamento a questo Continente. Sembrerebbe che a fronte di 30 miliardi di dollari in aiuti umanitari, il complesso del mondo occidentale ne tragga circa 190, considerando risorse naturali, prestiti, profitti delle multinazionali e altri passaggi.

Delmer Daves è stato regista, produttore e sceneggiatore statunitense, nato a San Francisco nel 1904. Dopo la laurea in Giurisprudenza alla Stanford University iniziò la recitazione teatrale e, nel 1927, entrò nel mondo del cinema come aiuto regista. Lavorò per aziende come la MGM e la Warner Bros. Nel 1960 produsse, diresse e sceneggiò il famoso film Scandalo al Sole, che ricevette un Golden Globe per il miglior attore esordiente, Troy Donahue, ma diventò famoso per il talento del musicista Max Steiner, che lo musicò con un motivo tra i più indovinati e conosciuti della storia del cinema. La pellicola fu molto discussa soprattutto per aver trattato, forse per la prima volta, aspetti della società americana e dell’universo adolescenziale fino ad allora sistematicamente e moralisticamente ignorati. E’ probabile che Daves abbia risentito non poco dello strumentalismo di John Dewey, fatto non insolito nel panorama socio-politico degli Stati Uniti di quel tempo. Nell’ultima scena del film, la brava attrice Doroty McGuire appare in lacrime, e il regista-sceneggiatore le fa pronunciare la frase: “We live in a glass house, it is not convenient for us to throw stones”, “Viviamo in una casa di vetro, non ci conviene tirare pietre”.

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