Dopo la fine della Guerra Fredda e con la crisi finanziaria del 2009, seppur con le dovute eccezioni, la corsa al riarmo restava su livelli di ragionevole approvazione. E ciò nei vari ambiti, non solo per quanto concerne lo sfoltimento degli eserciti con una significativa riduzione degli organici, ma anche sul ridimensionamento delle spese per gli armamenti che, non di rado, abbiamo visto attestarsi su numeri ad una cifra in riferimento al PIL, anche in nazioni con blasonate forze armate. E’ sembrato, ad un certo punto, che l’imperativo dominante fosse applicare la spending review, cioè quel “processo che ha come obiettivo la riallocazione delle risorse per conseguire una maggiore qualità ed efficienza della spesa”, per dirla in termini utilizzati dalla Confindustria. In tutto ciò, non sembra che l’efficienza e l’operatività degli eserciti delle singole nazioni abbiano avuto preoccupanti ripercussioni, anzi l’esigenza di ottimizzare l’utilizzo dei reparti e dei mezzi ha permesso lo sviluppo di uno studio e di una pianificazione delle tecniche d’intervento ancora più approfonditi e raffinati. Qualche eccezione, però, vi è stata, e ciò soprattutto nel settore dell’intelligence, dove la drastica riduzione anche e soprattutto delle risorse umane ha purtroppo favorito la possibilità di pianificare, approntare e realizzare clamorose azioni bellico-terroristiche che hanno letteralmente cambiato la storia, quali gli eventi dell’11 settembre 2001 e, non ultimo, l’attacco di Hamas il 7 ottobre scorso. E’ mancata la cosiddetta HUMINT, che è acronimo di HUMan INTelligence, cioè l’acquisizione di informazioni sulla parte avversa mediante l’utilizzo di personale che contatta, ascolta altre persone, ne valuta le affermazioni, gli orientamenti culturali, sociali, politici, analizzandone con attenzione ogni affermazione. Da un lato lo smantellamento degli apparati di spionaggio e controspionaggio dopo la caduta dei due blocchi, e con il già citato ridimensionamento degli organici, dall’altro la sempre maggiore fiducia nei sistemi tecnologici di sorveglianza, ascolto, decrittazione e analisi, hanno fatto sì che si verificassero situazioni parossistiche totalmente fuori da ogni controllo della cosiddetta intelligenza artificiale, con drammatiche conseguenze sotto gli occhi di tutti, delle vere e proprie debacle dei servizi di sicurezza. Fatto sta, che la spesa militare mondiale nel 2021 si avvicinava ai 2000 miliardi di dollari, facendo registrare aumenti vertiginosi fino a raggiungere livelli altissimi nel 2022. Pur considerando l’insorgere di conflitti, vedi Ucraina, che ormai coinvolgono, direttamente o indirettamente, i vecchi schieramenti atlantici e oltrecortina, con l’entrata prepotente di nuovi attori quali Cina e India, la corsa al riarmo è ingiustificabile e preoccupante. Considerando, tra l’altro, che non si tratta nella maggior parte dei casi di armamenti nucleari, come avveniva durante la Guerra Fredda, ma di armi convenzionali, che senza alcuna esitazione di sorta potrebbero essere utilizzate in qualsiasi scenario, regionale o mondiale, sfuggendo a ogni controllo politico e, come già detto, ad ogni azione di intelligence. Sintomatico, se non addirittura paradigmatico, è il caso della Norvegia che pur essendo un paese di lunga tradizione pacifista viene costretto, come lo è stato in passato, a mantenere uno status di Paese di confine. Con la Guerra Fredda, nella contrapposizione NATO–Patto di Varsavia, ove il ruolo dello stato scandinavo era fondamentale per arginare le velleità sovietiche, l’aeronautica militare norvegese arrivava ad intercettare anche 600 aerei dell’URSS all’anno, tale e tanta era la pressione strategica tra i due blocchi. Ed oggi, di nuovo, la Norvegia riprende il suo assetto di linea di confine, con gli scenari che si stanno delineando e con il nuovo allargamento della NATO, cui fa da riscontro una configurazione operativa sempre più incalzante della Russia, che non lesina energia nel rischierare uomini e mezzi aerei e navali in prossimità delle acque e dei territori norvegesi e finlandesi. Insomma, sembra che tutto sia ritornato all’immediato dopoguerra. E allora, la Norvegia dà il via al riarmo, con l’acquisizione di quattro nuovi sottomarini, con il completamento della linea degli F35, con l’acquisto di nuovi missili antiaerei e, fatto davvero in controtendenza, con la creazione di una nuova brigata meccanizzata (più di 5000 soldati) da schierare nelle lande del Finnmark, una regione all’estremo nord del Paese che per densità di abitanti è tra le meno popolate del subcontinente scandinavo, ma di importanza strategica per fronteggiare la Russia. Così la Francia, che arriva ad investire 413 miliardi di euro per la difesa, programmati per il periodo 2024-2030; la Germania aggiunge uno stanziamento straordinario di 100 miliardi per la difesa, avvicinandosi solo di poco al livello del 2% del PIL per le spese militari proposto dalla NATO. Nel giugno scorso vi è stata la più grande esercitazione aerea mai messa in atto dalla NATO, con la partecipazione di 200 aerei, anche italiani, e 10.000 soldati di 25 nazioni (fonte AERONAUTICA & DIFESA), simulando un intervento a fronte di un’invasione della parte orientale della Germania, con l’occupazione del 25% del territorio, insomma, scenari da nuova Guerra Fredda! Sembrerebbe che il cuore della Mitteleuropa abbia messo un po’ da parte i principi di pace che hanno ispirato i padri fondatori dell’Europa, applicando, ora più che mai tout court, l’adagio latino si vis pacem, para bellum. Jorge Luis Borges, scrittore e poeta argentino, grande saggista, candidato al Premio Nobel per la Letteratura nel 1967, in uno dei suoi celebri aforismi affermò, forse in occasione della guerra delle Falklands, “la guerra e come la lotta tra due calvi per un pettine”. Ma da chi sono venduti i pettini?