Secondo gli studi di Antonio Palermo Napoli è città protagonista nella cultura della seconda metà dell’Ottocento. La città partenopea ricopre un ruolo fondamentale nel panorama artistico del neonato stato italiano tale da superare i confini nazionali per stringere legami anche a livello europeo. A confermare questa tesi è utile citare la prima mostra nazionale d’arte a Firenze nel 1861 nella quale furono esposte opere di artisti partenopei quali: Palizzi, Morelli, Altamura, Celentano.
La storia di questo periodo florido dal punto di vista artistico è affidato alla penna di numerose opere autobiografiche degli stessi pittori protagonisti.
Caso degno di nota risulta essere la narrazione dell’artista Francesco Saverio Altamura. La sua autobiografia accoglie e unifica tre argomenti specifici: politica, arte e amore.
“Or mi dirà il saggio lettore: – Perché pubblichi questo libro? Io precisamente non so: ma certo dalla lettura di un volume di lettere di Bernardo Celentano … mi persuasi che l’anima nostra prova un sottile brivido di dolcezza nel rievocare le cose passate, dalle quali, se non scaturisce foco ardente, qualche scintilla balza tuttavia”.
A partire dalla prefazione l’autore chiarisce che l’idea dell’opera nasce dalla lettura del libro Due settennii nella pittura: notizie e lettere intime di Celentano, curato e pubblicato postumo nel 1883 dal fratello Luigi. L’idea quindi, di una biografia che rievochi la stagione risorgimentale è nata a partire da questi suoi studi e realizzatasi successivamente, quando a causa di problemi di salute è costretto all’inattività. Lascerà il pennello per la penna. I 31 brevi paragrafi che seguono alla prefazione costituiscono una narrazione-confessione della sua esistenza vissuta tra Foggia, Napoli, Firenze. La narrazione si caratterizza per la mancanza di un preciso ordine cronologico e la scelta di un interlocutore-destinatario esplicito. L’intera biografia mostra l’intrecciarsi continuo di vita, arte e politica, componenti alle quali si affianca il tema dell’amore.
Dopo aver narrato del suo arrivo a Napoli dove “Grandissima fu l’impressione ricevuta dall’aspetto della grande città, e solo paragonabile a quella ch’ebbi molti anni dopo, quando mi fu dato visitare capitali d’Europa”, Altamura frequenta l’Istituto di Belle Arti, dove insegnano Angelo Solari, Camillo Guerra e Gabriele Smargiassi. La predisposizione e la vocazione per la pittura sono descritte come avvenimenti casuali fino a quando ottiene una vittoria inaspettata in un concorso di pittura con il dipinto La sfida di Marsia e Apollo al quale seguirà un’altra vittoria, per il pensionato di Roma con un dipinto raffigurante l’Angelo che intima a Goffredo di continuare la lotta.
Corre l’anno 1847 e solo l’anno successivo in contemporanea con la sua evoluzione artistica Altamura si ritrova a Roma dove fermentava un altro germe più grande, inevitabile: quello dell’indipendenza e della costruzione della Patria. L’artista avrà modo di assistere nella futura capitale al passaggio del pontificato di Gregorio XVI a quello di Pio IX, che nutre le speranze dei rivoluzionari e la promessa di concedere una costituzione. L’eco di questa rinascita giunge fino a Napoli, dove si registrano le prime rivolte che giungono al culmine nel maggio del 1848. L’episodio politico è trasposto sul piano pittorico dall’artista con l’opera: La morte di un crociato.
Dà primordi della mia carriera, fino a questi tempi d’un’età matura e pratica d’arte, un quadro non è per me un problema di colorito, ma l’occasione di vestire con forme sensibili un’Idea. C’era scritto a’ piedi della tela (La morte d’un crociato) “Dio lo vuole” che fu il motto degli antichi crociati, ed era anche quello dell’Italia nuova.
Tale dipinto e iscrizione misero l’artista in una posizione scomoda, dal momento che fu inserito nei libri della polizia e decise di lasciare Napoli per la Toscana.
Interessante e degna di nota è sicuramente anche la spiegazione che Altamura fornisce in merito al dipinto il Centauro Chirone che canta la liberazione di Prometeo:
Oltre d’essere il simbolo dell’umanità collettiva sempre in lotta con la forza brutale, per me, artista, rappresenta la lotta continua che ciascuno di noi combatte per incarnare il suo concetto, essendo la materia sorda al suo appello, quindi il continuo rodimento del suo spirito, vivificato solamente e rifatto dal culto continuo delle bellezze naturali.
Il quadro diviene la metafora del lavoro dell’artista, ossessionato dalla trasposizione materiale di un concetto in precedenza ipotizzato. E proprio a partire dal capitolo XXVI che l’autore dichiara di non voler più redigere un elenco noioso delle sue opere, ma includere delle divagazioni capaci di renderle maggiormente esaustive. Attraverso questi commenti emerge l’importanza che l’arte napoletana rivestì per Altamura insieme ad artisti quali Morelli, Dalbono e la pittura di paesaggio.
Per l’artista nel Meridione ricco di bellezze naturali non esiste una vera e propria pittura paesaggistica e sottolinea come la sua “poetica pittorica” sia “psicologia del vero”:
…Quando l’artista pone del suo, traendolo dal suo Io, l’ora, il sentimento che deve destare in chi guarda, il sentimento destato in lui da quel tal luogo, da quella tale ora, allora egli s’innalza a cime sublimi.
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