Il 23 maggio ricorre la Giornata Nazionale della Legalità, si ritrovano insieme, sinergicamente, in questa occasione così forte e commovente, il MIUR, la Fondazione “Giovanni e Francesca Falcone” e una miriade di sigle, di sodalizi, di istituzioni. Ci sono degli attimi nella vita di ciascun uomo che segnano per sempre e che nei meandri cupi della lotta per la quotidiana esistenza rappresentano fari di luce che ridanno certezze, guidano, rassicurano. Aspettavamo tutti quel momento, ed era proprio giunto. Eravamo quasi un migliaio, arrabbiati, delusi, infervorati, desiderosi tutti di ricevere qualcosa che corroborasse, che ci rinfrancasse dalla lunghe ed estenuanti lotte e discussioni per la legalità, per la civile, pacifica convivenza democratica; per qualcosa che desse anche senso alla nostra vita, ai nostri piccoli, grandi insuccessi, alle nostre quasi quotidiane inquietudini e diatribe, che non ci facesse più sentire accerchiati in un mondo che si stentava sovente ad accettare e a riconoscere. Ed arrivò, puntuale, scortatissimo, in una Lancia Thema grigia, ci sembrò molto strano scorgere il bianco del colletto da prete tra i vetri fumèe dell’auto blindata. L’attesa e poi la tensione si potevano percepire, quasi toccare, d’un tratto le tante, vocianti persone che si trovavano nell’auditorium del Liceo Classico di Eboli tacquero, e don Luigi Ciotti, il prete antimafia, il prete scortato, il prete “blindato”, cominciò il suo intervento. Parlò di connivenze, di coerenza, di valori da riscoprire, di coraggio, di doveri da compiere fino in fondo, di cammino, di quotidiano impegno, di dolore, di denuncia, di sofferenza, di Stato, di Costituzione, di poteri, di non rassegnazione, di Italia, di bellezza, di pace. Terminò. Chi si aspettava un’omelia restò sconcertato, disorientato, quasi deluso. Tutti gli altri, ed io ero tra quelli, rimasero semplicemente in silenzio, stentando quasi ad elaborare l’enorme mole di concetti, ed estasiati per la forza e la semplicità ma anche la finezza con cui erano stati trattati. Nel sacro silenzio creatosi, giunse il momento delle domande: si alzò una giovane e chiese quale fosse il primo gesto da compiere, per poter agire nella legalità. Don Ciotti rispose, laconico, deciso, lapidario: “indossare il casco!”.
C’è chi gira da anni, per lavoro o per diletto, nelle meravigliose valli, dolci colline, incantevoli spiagge delle nostre straordinarie plaghe, tra uliveti ed orti, autoctoni arbusti e più esotici palmeti, case e chiese, scuole e negozi. Osserva le realtà locali, nella traccia della storia, della sociologia e dell’economia, che hanno composto, strutturato queste nostre splendide realtà. Vi è, però, rimpianto e sconcerto quando si pensa che tutto il bello che è sotto i nostri occhi possa essere inficiato, messo in pericolo dal declinare nei confronti della legalità. E’ un pericolo che incombe, guai a pensare che tutto possa essere serenamente acquisito, pacifico, fatalmente accettato, come si suole dire non bisogna mai abbassare la guardia. Toccante è stata, l’estate scorsa, la partecipazione ad una marcia per la legalità e per le persone uccise della criminalità organizzata. Vi era molta gente, parenti delle vittime, amici, autorità o semplicemente persone che con la loro silenziosa, commossa presenza volevano rendere omaggio, ricordare, ma anche esprimere un severo monito, rammentare che al ricordo va aggiunto qualcos’altro: bisogna prevenire, sensibilizzare, coinvolgere i vari livelli del tessuto socio-culturale del territorio, le scuole, il mondo dell’imprenditoria, del commercio, le fondazioni, le associazioni, se necessario anche reprimere, multare, confiscare, per salvare anche una sola vita umana. L’esercizio della legalità deve essere quotidiano, una prassi, un modus vivendi piuttosto che un modus operandi. Ma tale prassi, anche come definizione, è sempre supportata da una conoscenza, da un’episteme. Affidarsi alla mera pratica porterebbe al serio rischio di svuotare di significato la legalità e ogni gesto ad essa connesso, e ciò sarebbe deleterio soprattutto per le nuove generazioni, che non capirebbero il senso e il perché di un’azione senza una “conoscenza abilitante”, senza alcuna nozione di consapevolezza che descrive, illustra, educa. Siamo un po’ tutti coinvolti, è importante. Se Hemingway affermava che «il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare», è ora di muoversi.