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Se c’è un elemento che tutti, dalla televisione al cinema, dalla piattaforma streaming ai canali lineari, hanno sempre in mente è il tempo. Perché è a quello, alla fine, che si riduce ogni cosa. È a quello che si riduce una serie, un film; che si riduce la battaglia per gli spettatori, e le campagne multimilionarie di marketing. Se non hai tempo, non hai niente. Nessuno ti guarderà, nessuno ritornerà da te; nessuno, soprattutto, rinnoverà il suo abbonamento. E allora la domanda diventa, come un vorticoso valzer di calcoli e valutazioni: che cosa serve per conquistare il tempo?

Risposta più semplice, e spesso, proprio per questo, ignorata: la qualità. Risposta un po’ più complicata, ma ugualmente facile da capire: una storia infinita. Se insisti, se continui a bombardare chi c’è dall’altra parte, in qualche modo – pensano quelli che producono, investono e danno l’okay ai nuovi progetti – il pubblico riuscirai a creartelo, a raccoglierlo, ad averlo sempre pronto.

È con questa visione che, nel giro degli ultimi anni, prima Disney, con le sue serie Marvel, estensione tiepidina dell’universo cinematografico, e poi Prime Video hanno cominciato a investire milioni e milioni di dollari. A volte, ecco, miliardi. Hanno visto il successo di Game of Thrones, sulla HBO, e hanno pensato di poter replicare un modello che, semplicemente, non esiste. E così se prima c’è stata la corsa alla nuova Trono di Spade, in cui chi ha più o meno (sì, più o meno) vinto è stata Netflix con The Witcher, ora c’è la corsa al franchise capace di unire più piani e più linguaggi, di anticipare il film o di arrivare subito dopo.

Prime Video, dicevamo, ci ha provato. E ci sta ancora provando. Un anno fa con la serie del Signore degli Anelli, Rings of Power. Che sì, forse ha risposto a certe aspettative dal punto di vista delle ore visualizzate e degli “ascolti” (virgolette, qui, obbligatorie), ma che non è riuscita a fidelizzare il pubblico. Anzi: ha avuto la capacità (si può davvero parlare di capacità, in questo caso?) di dividerlo ulteriormente.

Ora è il turno di Citadel, la serie dei fratelli Russo, che è enorme e costosa, che ha in piedi già alcuni spin-off in altri paesi del mondo, e che però, per adesso, si conferma come un’idea già vista, resa visivamente abbastanza male (i combattimenti, per quanto avvincenti, non hanno lo stesso effetto di – per esempio – quelli di John Wick o di Extraction, prodotto dagli stessi Russo).

La spy story, che è poi il nocciolo di Citadel, è banale, prevedibile e poco – ma veramente poco – innovativa fino a questo momento: agenzia super-segreta, ancora più segreta dei servizi segreti, che viene messa alle corde e che, dopo anni di silenzio, torna per vendicarsi. O per fare giustizia: dipende dal punto di vista.

Insomma, questa voglia di creare grandi racconti, sostituendo una narrazione più breve, più contenuta, con una spalmata nel tempo (e a volte, anzi, stiracchiata fino all’inverosimile), non sta portando i frutti sperati. Anche Apple tv+, con Foundation, ispirata “vagamente” ai libri di Asimov, sta correndo questo rischio. Netflix, da parte sua, è pronta a cancellare tutto quello che non rispecchia le sue previsioni: e non si fa nessun problema, nemmeno davanti a una serie particolarmente amata dal pubblico.

Sta provando altre strade, e di questo bisogna darle atto. Per esempio, come HBO, sta investendo in serie tv tratte dai videogiochi (lo sta facendo anche Amazon, con Fallout). Nella speranza, ovviamente, di poter parlare a un pubblico già formato e consolidato. Oppure sta cercando di trasformare grandi brand, come One Piece, nelle fondamenta di una nuova offerta per il pubblico: live action tratti da fumetti o da anime. Per ora, con Cowboy Bebop, non è andata benissimo (in realtà, ecco, è andata malissimo: è stata cancellata dopo la prima stagione).

Tutto coincide esattamente con quello che dicevamo all’inizio: al tempo e al suo peso. David Fincher, che negli anni ha lavorato con Netflix, che ha diretto House of Cards, firmato la bellissima Mindhunter, lanciato la seria antologica Love, death + robots, ha riassunto perfettamente questa necessità. Il pubblico non vuole aspettare; vuole subito quello che si aspetta di trovare. E dunque: se è un horror, vuole l’horror. Se è un action, vuole un action. Non premesse infinite, non mille mani avanti.

Le grandi saghe, oggi, vogliono sostituire il modello più tradizionale del piccolo schermo. Ma forse, e questa è una nostra ipotesi, arrivano in ritardo. C’è un’altra importante occasione che la tv sembra ignorare. Quella delle miniserie. Racconti che si esauriscono nel giro di una stagione, di un numero contato di episodi, e che tuttavia riescono, grazie alla loro scrittura, ai loro protagonisti e alla loro storia (vedi, ad esempio, The Queen’s Gambit) a conquistare il pubblico.

Poi, la bravura della piattaforma o del distributore più tradizionale sta nel capire se è il caso di continuare, di dare agli spettatori quello che gli spettatori vogliono (correndo il rischio, però, di annacquare un vino venuto particolarmente bene) o di fermarsi.

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