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Celebrare Francois Truffaut a 90 anni dalla sua nascita (6 febbraio 1932) è una battaglia di retroguardia. Curarne il ricordo, sorridere e infervorarsi di fronte alle sue battaglie ideologiche, rimanere ogni volta toccati dai suoi film, pare un atto di amore sepolcrale. Eppure, se non ci fosse stato lui, non saremmo qui a parlare, a scrivere pardon, e ad ammirare quel poco che resta del cinema in sala. Non fosse stato per Truffaut non avremmo preso di petto, seriamente e passionalmente, in prima persona singolare, il paradigma dell’ “autorialità” per spiegare o provare ad analizzare il cinema e i suoi realizzatori. Non avessimo avuto la fortuna di leggerlo mentre da autodidatta rivoluzionava l’approccio, il sentimento, la struttura e il linguaggio della critica nei primi anni cinquanta, saremmo qui sgrammaticati e afoni ad elencare solamente il numero (limitatissimo) di spettatori in sala. Se nel momento della formazione adolescenziale non avessimo percorso in fretta e furia la corsa verso e sulla spiaggia di Antoine Doinel sul finale de I quattrocento colpi non intenderemmo il cinema come qualcosa di visceralmente personale e profondo, nonostante mode e tendenze imposte.


Insomma, Truffaut è l’architrave del cinema come abbiamo imparato a seguirlo dal dopoguerra all’altro ieri, ma in fondo di questo non se ne ricorda più nessuno. Per uscire dall’oblio, in questa giornata particolare ci sono diversi modi. Intanto per capire storicamente nei dettagli il critico, il cineasta, l’uomo suggeriamo la lettura di un saggio corposo e amorevole come Il cinema di Truffaut scritto da Paola Malanga (Baldini+Castoldi). Qui troverete le coordinate dettagliatissime dell’infanzia e dell’adolescenza di Truffaut, ma soprattutto potrete comprendere il senso della “rivoluzione” che Truffaut, assieme a Chabrol, Rivette, Rohmer e Godard compì prima sulle pagine dei Cahiers du Cinema e di Arts (qui ci torniamo) poi dietro la macchina da presa con I quattrocento colpi, Jules e JimFahrenheit 451Il ragazzo selvaggio, Gli anni in tasca, Effetto notte, L’ultimo metrò, e tutti i 21 film che lo scalcagnato ragazzetto che andava ai cineclub con i pantaloni sorretti da uno spago o una catenella girò furiosamente al 1959 al 1983 prima di morire, il 21 ottobre 1984 per un tumore al cervello. Malanga riesce a far emergere un dato impressionante e straordinario di Truffaut: la sua ostinazione a svellere le convenzioni culturali, la sua pervicace necessità nel portare fino in fondo un’intuizione intellettuale radicale nonostante il ragazzo fosse un discolo da riformatorio espulso da ogni scuola, vivesse di piccoli espedienti quotidiani come furti e ruberie, privato dell’affetto di una madre nevrastenica e assente come di un padre mai conosciuto e sostituito da una controfigura assai neutrale. Per sintetizzare il lavoro di Truffaut critico, Malanga scrive: “T. andava a stanare un cinema francese effettivamente sclerotizzato ridotto a formule e maniere fisse”.


Fermiamoci un attimo qui. E aggiungiamo un rapido ragionamento. Vivendo in un’epoca di esasperata (e oramai insignificante) dicotomia ideologica sinistra/destra tutta la vis polemica dei Cahiers e la successiva affermazione della Nouvelle Vague cinematografica è sempre stata letta genericamente come segno culturale di sinistra contro la tradizione, di destra. Ebbene, ricordiamolo una volta per tutte: i Cahiers, e ancora di più il settimanale Arts, non erano organi di informazioni di “sinistra”. Per quello c’erano Positif e decine di riviste e quotidiani “impegnati” a difendere la sostanza, il contenuto dei film. Truffaut e soci, strenuamente formalisti, invece, fecero qualcosa che oggi ci sogniamo, o che verrebbe bollato di pericoloso “individualismo” magari fascista: contestarono l’apparato industriale e l’afflato poetico del “cinema di papà” che era composto da tutto quel cinema da “fronte popolare” pre guerra e nel suo auto elevarsi ad unica soluzione visiva aveva, appunto, “sclerotizzato” il sistema a livello ideologico, teorico e produttivo. Sarebbe un po’ come se Truffaut caduto sulla terra oggi si scagliasse contro RaiCinema, Medusa, e tutta la compagnia cantante del segno del comando che propone la “ricetta” del cinema giusto che funziona. Dal momento che però la platea spettatoriale odierna è ricettiva fino alla prossima stagione di Black Mirror o Squid Game, sembra alquanto complesso che il miracolo si possa ripetere mutatis mutandis settant’anni dopo. Torniamo al libro della Malanga.


Perché è una così incredibile ondata di aria fresca rileggere le polemica dei “giovani turchi” nel difendere l’autorialità di Hitchcock o Hawks (mentre la critica anglosassone gli dava del peracottaro commercialissimo), o ancora la difesa strenua di Rossellini post neorealismo (l’autore è genio soprattutto nei film sbagliati, ca va sans dire). Dato curioso è proprio la paternità di Rossellini rispetto l’avvio del cinema da registi dei “giovani turchi”. Ma se vogliamo capire, senza rimanere appiccicati allo schermo del pc o del telefonino, cosa sia significato per Truffaut “fare” cinema, dopo averne rivoluzionato l’analisi e l’approccio critico, e provando gradualmente a trovare un’indipendenza produttiva personalissima (Les Films du Carrosse) prendiamo ancora uno stralcio del libro della Malanga. “Buoni o cattivi, i miei film sono quelli ch ho voluto fare e solo quelli. Li ho girati con gli attori – famosi o sconosciuti – che avevo scelto e che mi piacevano. Se un giorno mi si rifiuterà un progetto, andrò a girarlo in Svezia o anche più in là (…) So che se tutti i miei progetto personali fallissero, finirei per accettare qualche lavoro su commissione, e che il risultato non sarebbe per forza scadente, ma fin qui ho tenuto duro e mi sono trovato bene”, scrive Truffaut nella lettera ad un amico. “Truffaut – aggiunge Malanga – rivendica in questo modo il suo status di autore, né apocalittico né integrato rispetto al sistema, ma ostinatamente autonomo e capace di fare necessità virtù per salvaguardare la propria indipendenza”.


Infine il ricordo di Truffaut ci ritrova d’accordo, come raramente capita, perfino con Paolo Mereghetti che nella prefazione al libro della Malanga apre un ulteriore capitolo “nostalgia” sul cinema che oramai fu (capitolo che peraltro lasciamo sventolare aperto e non concluso, sperando nell’avvento di un altro Truffaut): “Tornare a parlare di T. oggi negli anni dello streaming e della serialità, può essere un esercizio ai limiti dell’autolesionismo (…) il suo cinema rischia di apparire alle ultime generazioni di spettatori uno strano oggetto, difficile da maneggiare, con le sue storie fatte di passione e non solo di efficienza narrativa, con personaggi di cui senti i battiti del cuore e non solo il martellare delle battute, con la sua eleganza fatta di inquadrature ricercate ma mai gratuite (…) cose d’altri tempi. Eppure è proprio questo il cinema di cui si dovrebbe sentire maggiormente la mancanza e il bisogno, quel cinema a l’ancienne capace di coniugare le esigenze e le ambizioni dell’autore con il rispetto e la riconoscenza per un pubblico curioso e appassionato. E Truffaut di quel cinema era stato (…) l’apostolo che soddisfaceva gli occhi e insieme faceva palpitare l’anima e di cui oggi si sembra perso lo stampo oltre che il gusto”.

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