Il regista non ha rimpianti, rifarebbe tutto così come l’ha fatto, anche perché più che il risultato “conta la passione che ci metti dentro”. E anche l’Italia è entrata a gamba tesa nei “sogni” formativi del giovane Burton “sono cresciuto guardando Bava, Fellini e Argento”
L’eterno sognatore ad occhi aperti. Il fabbricatore di creature uniche e inimitabili. Tim Burton si è commosso davanti all’ovazione ricevuta alla 16ma Festa del Cinema di Roma. E questo perché a dispetto dei suoi universi dark, la più grande paura del grande cineasta americano è quella di salire su un palco davanti a un pubblico.
Eppure quello che ha trovato nella Capitale è riuscito, magicamente, a metterlo a suo agio, facendolo sentire a casa. Specie quando in platea ha ritrovato i suoi amici “artisti totali”, Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo e Gabriella Pescucci, orgoglio italiano a plurimi premi Oscar con cui Burton ha lavorato. Sono stati loro, accolti in trionfo, a consegnare al “collega” il Lifetime Achievement Award di quest’edizione della Festa. In visibili lacrime, il creatore di Edward Mani di forbice e di tanti straordinari personaggi, è rimasto quasi senza parole, felice come il bambino che è in lui, di poter celebrare la propria Arte in condivisione con amici amati e stimati.
Del resto l’Italia è entrata a gamba tesa nei “sogni” formativi del giovane Burton “sono cresciuto guardando Bava, Fellini e Argento”. Lui, da sempre un outsider, si stupisce che gli Studios l’abbiano “tenuto” dentro al sistema. “Forse non capivano quello che facevo. Sono stato molto fortunato perché ho avuto la possibilità di tradurre i miei sogni ad occhi aperti nella mia arte, nel mio cinema”, ha dichiarato con emozione.
“Ho iniziato negli ’80 lavorando alla Disney, quella dove stavano crescendo talenti come Lasseter e Bird. Ma ero un pessimo animatore, sono passato al montaggio e poi per conto mio”. Ma Tim ormai si tiene “stanzialmente” lontano da Hollywood – benché i suo film restino distribuiti dalle major – quella Hollywood che ha cacciato Johnny Depp, il suo amico e attore feticcio solo pochi giorni fa sul medesimo palco. “Io farei certamente un altro film con lui, ma non più con quella Disney che mi ha fatto venire un esaurimento nervoso quando ho girato Dumbo: ero diventato io stesso un dumbo!”. E la diatriba con gli Studios non ha fine per il regista, che naturalmente non ama il politically correct: “Oggi non puoi fare nulla senza che qualcuno si senta infastidito, Hollywood ne è ossessionata”.
Ad ogni modo Tim Burton non ha rimpianti, rifarebbe tutto così come l’ha fatto, anche perché più che il risultato “conta la passione che ci metti dentro”. Esattamente, forse, come quell’Ed Wood considerato il peggior regista della storia i cui diari esondavano di entusiasmo. In tal senso non era diverso da Orson Welles che invece, “era considerato il migliore di tutti”. Tra i suoi personaggi, di fatto, non mancano gli artisti reietti, poco celebrati o misconosciuti, come Margaret Keane di Big Eyes e lo stesso Ed Wood. “Mi piace l’idea che l’arte sia così soggettiva nella percezione altrui. Quanto per me è dolce per altri è inquietante. Per quanto mi riguarda non mi considero un artista, solo uno che traduce qualcosa che sente, ogni mio personaggio ha a che fare con la mia infanzia, i miei sogni. La mostra al MOMA sui miei disegni mi ha sorpreso, entusiasmato, reso una persona felice. Ma non dimenticatevi: le idee migliori nascono come un sogno, per me con un drink al bar”.