Un thriller psicologico basico ma efficacemente inquietante, con una regia pulita, due splendide performance attoriali e una premessa intrigante anche se non originale
Run non è un film sorprendente ma racconta bene il groviglio di ossessione e istinto materno che può rendere l’accudimento un processo delirante.
Aggiungendo caratteristiche peculiari a quelle che sono dinamiche cinematografiche rodate, il film mette in scena infatti un caso di deriva psichiatrica dell’amore genitoriale.
Diane Sherman (Sarah Paulson) è la protettiva madre single di Chloe (Kiera Allen), un’adolescente che, venuta al mondo con un parto difficile, soffre da sempre di una serie di condizioni mediche particolari tra cui asma, aritmia cardiaca, paralisi agli arti inferiori e diabete. La ragazzina, per quanto brillante e ottimista, non è autosufficiente o almeno questo è quanto sembra sostenere la sua genitrice standole costantemente addosso. Sebbene costretta su una sedia a rotelle e con una quotidianità scandita dalle medicine, Chloe ha il progetto di cambiare finalmente vita andando al college. Un giorno però si accorge che la madre le sta dando una nuova pillola che, in realtà, il farmacista ha assegnato alla donna e non a lei. Le viene il dubbio che quella che chiama “mamma” sia una sorta di estranea e voglia farle intenzionalmente del male. Cresciuta in totale isolamento da una maniaca del controllo, in una casa sperduta in una posizione non meglio specificata dello stato di Washington, Chloe capirà di avere nel proprio ingegno l’unica risorsa e nel punto cieco della visione materna la sua unica speranza di salvezza.
“Run”, scritto e diretto da Aneesh Chaganty, regista di origine asiatica, racconta una vicenda morbosa con riferimenti alla Sindrome di Mancheusen e ai meandri più oscuri del rapporto genitore-figlio. Lo spettatore capisce da subito che di Diane non ci si può fidare e che la giovane Chloe è in una brutta situazione di abnegazione altrui interessata e pericolosa, pronta a degenerare.
Tipico del “nulla è come sembra”, in una storia di diffidenza fobica verso il mondo esterno il pericolo finisce col provenire dall’interno delle mura domestiche. L’abitazione è qui adibita a prigione permanente, un luogo in cui aleggia soffocante la presenza di una donna che entra a pieno titolo nel filone delle mamme psicopatiche e chemette i brividi per il candore ambiguamente affettato con cui pronuncia ogni parola.
Thriller psicologico standard e derivativo (richiama in alcuni momenti anche il cult “Misery non deve morire”), “Run” deve molto alla sempre convincente Sarah Paulson (“American Horror Story” e “Ratched”), ma la debuttante Kiera Allen, disabile anche nella vita vera, non è da meno quanto a bravura. Accantonata per una volta l’abitudine hollywoodiana di non scritturare portatori di handicap per interpretare disabili, la narrazione brilla per autenticità: nelle scene in cui si vede Chloe in difficoltà motoria a mettere in atto piani di fuga, è lo stesso spettatore a sperimentare una situazione di paralisi.
“Run” non è innovativo ma resta un film riuscito e godibile, in cui a raggelare non sono tanto i violini volutamente stridenti della colonna sonora quanto certe similitudini con casi di cronaca effettivamente avvenuti.